Condivido con voi un tratto del libro di David Grossman - "La vita gioca con me".

 È più grande di noi, l’epidemia. È più forte di qualsiasi nemico in carne e ossa che abbiamo mai affrontato. Talvolta un pensiero agghiacciante si insinua in cuore: questa, forse, è una guerra che perderemo. Subito però respingiamo una tale eventualità. Perché mai dovremmo uscirne sconfitti? Siamo nel XXI secolo!
Eppure qualcosa ci dice che stavolta le regole del gioco sono diverse al punto che, al momento, di regole non ce ne sono proprio.
Lo sappiamo: una certa percentuale della popolazione sarà infettata dal virus. Una certa percentuale morirà.
Improvvisamente nelle nostre vite è in atto un dramma di proporzioni bibliche. Ognuno di noi è parte di questo dramma. Nessuno ne è esente. Nessuno è meno coinvolto degli altri. Da un lato i morti che non conosciamo non sono che un numero, persone anonime, senza volto. Dall’altro, osservando i nostri cari, avvertiamo quanto ogni essere umano racchiuda in sé un’intera, insostituibile civiltà.

E sia benedetto l’umorismo, il miglior modo di affrontare tutto questo. Quando riusciamo a ridere del Covid-19 proclamiamo, di fatto, che non siamo completamente paralizzati. Che abbiamo ancora libertà di movimento. Che continuiamo a combattere e non siamo vittime indifese (in realtà lo siamo, ma abbiamo trovato un modo di aggirare questa orribile consapevolezza, e persino di riderne).

Per molti l’epidemia potrebbe trasformarsi in un evento cardine, fatidico per il prosieguo della vita. Quando si attenuerà, la gente potrà finalmente uscire di casa dopo una lunga quarantena e scoprire nuove e sorprendenti possibilità, generate forse dal contatto con il fondamento stesso della nostra esistenza. Magari la morte tangibile e il miracolo della salvezza scuoteranno donne e uomini. Molti perderanno i loro cari, il lavoro, la fonte di guadagno, la dignità. Ma quando l’epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. Chi, potendo, lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso.
La presa di coscienza della fragilità e della caducità della vita spronerà uomini e donne a fissare nuove priorità. A distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è futile. A capire che il tempo — e non il denaro — è la risorsa più preziosa. Ci sarà chi, per la prima volta, si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere. Uomini e donne si chiederanno perché ho sprecato l’esistenza in relazioni che provocano solo amarezza.
Il ricorso all’immaginazione nell’attuale baratro di disperazione e di paura ha una forza tutta sua. Ci permette di vedere non solo scenari catastrofici ma di mantenere una certa libertà mentale. La capacità di immaginare tempi migliori significa che non abbiamo ancora lasciato che l’epidemia e la paura prendano il sopravvento su di noi. C’è quindi da sperare che, quando il pericolo del contagio sarà passato e si respirerà un’atmosfera di risanamento e di ripresa, la gente mostrerà una diversa disposizione di spirito: sarà pervasa da un senso di leggerezza, di nuova freschezza.

Potrebbero scoprirsi gradevoli segnali di innocenza, privi di qualsiasi cinismo. Forse capiremo che questa micidiale epidemia ci consente di liberarci di strati di grasso, di avidità, di pensieri grossolani e rozzi, di un’abbondanza divenuta ormai eccesso che comincia a soffocarci (perché diavolo abbiamo accumulato così tanta roba? Perché abbiamo seppellito la nostra vita sotto montagne di oggetti che non vogliamo?).
Questi scenari si avvereranno? Chi lo sa. Semmai dovessero, temo che si dileguerebbero rapidamente e le cose tornerebbero a essere come prima. Prima dell’epidemia. Prima del diluvio. È difficilissimo indovinare cosa succederà fino a quel momento.

 Spero che il messaggio positivo sia di supporto per tutti.

 Restiamo umani, e uniti!

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